22 Settembre 2016
Di
Federica Verona

Parchi culturali e sociali, abitare popolare, l’orchestra del mondo, l’accoglienza e la pasion latina. Il nostro tour tra il Lambro e via Padova

Parco Lambro

L’appuntamento è al Parco Lambro, uno dei parchi più belli di Milano. Un luogo della memoria per chi, nel 1976, ha partecipato al festival del proletariato giovanile, dove tra un concerto degli Area e uno della PFM, si ballava nudi gridando slogan della cultura underground di quel tempo. Oggi il Lambro è uno spazio verde, frequentato da famiglie e sportivi, dove si scorgono molte strutture dell’accoglienza, tra cui la Fondazione Centri Giovanili di Don Mazzi, e Ceas, insieme a Casa Della Carità. Incontriamo Umberto Zandrini, il presidente del Consorzio SiR (Solidarietà in Rete), e l’obiettivo è conoscere la storia della Cascina Molino San Gregorio, che presto sarà attiva. Umberto ci porta in mezzo al verde, proprio dietro alla cascina ancora in cantiere, ci posizioniamo sul prato, all’ombra, e tra un aereo e i rumori della tangenziale in sottofondo, gli chiediamo curiosi, cosa quel luogo diventerà.

 Ci racconta che insieme ad altri partner, che sono la Cooperativa Cascina Biblioteca e il Centro Ambrosiano di solidarietà, hanno progettato e messo in atto il recupero strutturale e funzionale di Cascina Molino San Gregorio, costituendo un consorzio ad hoc che si chiama appunto “Consorzio Molino San Gregorio” e che ha l'obiettivo di connettere e collegare una serie di realtà presenti in questo territorio e promuovere una sorta di hub sociale, culturale e di servizi alla cittadinanza. In modo particolare dedicato al quartiere in un'idea di sistema molto più ampia che vuole connettere tutte le 63 cascine di proprietà pubblica e che fanno da cintura naturale al territorio urbano in cui ci troviamo. Ci dice che è un patrimonio ricchissimo che non avrebbe senso lasciare abbandonato ma andrebbe rifunzionalizzato al meglio. Il Parco Lambro è uno spazio molto interessante, spiega, perché è territorio di un grappolo di cinque cascine molto vicine. Una ha mantenuto la sua vocazione agricola, mentre le altre quattro ormai hanno acquistato completamente quella che è la loro vocazione più sociale. Molino San Gregorio è un po' il centro di questo grappolo così hanno ritenuto utile, come soggetti che già vivono e lavorano su questo territorio, di pensarlo come un luogo aperto al pubblico e non solo come un'attività di servizi rivolta ad utenze particolari o a un segmento di cittadini.

Gli chiediamo quali saranno le attività della Cascina: dal piccolo co-housing per persone anziane autosufficienti o semi-autosufficienti che avranno possibilità di avere spazi da condividere alla comunità per mamme e bambini. A fare da snodo, un piccolo caffè letterario che avrà lo scopo invece di produrre cultura. Aprirsi al territorio è una azione che vogliono fare partire dalle esigenze, dalle volontà, dai desideri della popolazione del quartiere intorno al Parco Lambro, spiega Umberto, ma può essere anche l’occasione di ospitare qualche evento di particolare interesse, di particolare livello, in modo da poter diventare un polo un po' più aperto per tutta la cittadinanza con uno sguardo metropolitano. A completare l'opera una serie di orti sociali che attiveranno attraverso un bando aperto ai cittadini, un mercato agricolo e un “punto parco” che avrà invece lo scopo di accompagnare le scuole, i cittadini, insomma chiunque sia interessato a conoscere questo territorio, il tutto in collaborazione con le guardie ecologiche volontarie. Un progetto sociale e culturale che ha, in sostanza, lo scopo di attivare di più un parco che è molto utilizzato dalle comunità ma che ha anche la necessità di aprirsi di più alla città, connettendo operatori sociali, attività sportive, agricole nell’idea di recuperare quegli asset comunitari che stanno in qualche modo andando in rovina, Dice Umberto.

I lavori di restauro della Cascina procedono con velocità e presto potremo andarci e utilizzare questo spazio che promette bene. Ci dilunghiamo a parlare ancora un po’ della difficoltà di operazioni simili, del lavoro lungo e macchinoso che l’associazione Cascine Milano ha fatto con il Comune per evitare l’alienazione di questi beni che per il territorio sono un grande potenziale. Non possiamo evitare di citare Expo e delle 63 Cascine che sarebbero potute diventare dei padiglioni diffusi rafforzando il potenziale che in sè portano.

Purtroppo è già ora di andare, verso l’appuntamento successivo. Il progetto di Social housing del Bando Abitare Milano 1, in Via Civitavecchia. Uno dei progettisti, Lorenzo Conzales, ci aspetta nel cortile e, appena arrivano tutti gli altri, ci disponiamo in un prato che sceglie lui davanti ad un giardino spontaneo bellissimo. La zona è di fatto inserita in un contesto popolare: case basse con giardino. Poco distante RCS,  e un complesso sportivo per il calcio, dove pare si allenino i migliori. Una zona completamente priva di servizi. Niente botteghe, niente bar, niente di niente.

Lorenzo ci racconta che il progetto che abbiamo attorno ai nostri occhi è del 2005 e nasce dal bando Abitare a Milano, poi ripetuto quattro anni dopo e distribuito in varie aree a standard. I primi quattro progetti sono stati realizzati, degli altri ne stanno terminando adesso solo uno. Il bando, ci spiega, nasceva dalla volontà dell'amministrazione pubblica di allora e da una ricerca molto approfondita del Politecnico di Milano che aveva prodotto delle linee guida per i progettisti. Erano delle indicazioni molto precise da un punto di vista di relazioni urbane e di ruolo sociale del quartiere. In quel quartiere, ad esempio, hanno dovuto interagire molto con la presenza del Parco Lambro, con l’asse urbano di viale Palmanova e la fermata della metropolitana di Crescenzago. Le linee guida sono state molto utili per analizzare al meglio questi riferimenti. Lorenzo ci racconta che  il loro progetto nasce dall’idea, poi diventata guida di tutto il progetto, di mettere insieme due realtà: quella della città e quella del parco costruendo, una sorta di filtro, una sorta di terra di mezzo. Il nuovo progetto voleva raccontare la transizione dalla città al parco e contemporaneamente portare il parco alla città. Ci spiega che gli alloggi sono case Aler e del Comune. Infatti il bando vedeva una forte collaborazione tra Regione e Comune. C’è una torre e poi ci sono delle palazzine di altezza media. In fondo, sul parco, si trova l'edificio dei servizi che doveva essere una casa dell'acqua, bar e caffetteria ma non è mai stato terminato purtroppo. Nonostante avesse un ruolo importante, quello di diventare vero e proprio filtro nei confronti del parco e edificio rivolto in parte a servizi per la comunità. Ma sarebbe potuto essere utile anche per accogliere un certo turismo.

Lorenzo ci racconta che il Parco Lambro era una sua meta favorita sin da quando era piccolo, è milanese, ed è sempre arrivato da via Feltre, in macchina, parcheggiavo li vicino.  E secondo lui, in un ottica di turismo urbano, anche regionale data la vicinanza all'Adda con la metro per  Gessate, si poteva immaginare un nuovo accesso al parco Lambro. Un luogo, dove grazie ad una mobilità facilitata, la gente poteva arrivare in bicicletta caricandola sulla metropolitana il fine settimana arrivando ad una nuova fermata che loro avevano proposto da progetto di rinominare “Crescenzago/Parco Lambro". Con l’idea di rendere forte anche simbolicamente una nuova polarità. Nel progetto, ci spiega, non hanno assolutamente voluto che nulla fosse recintato, proprio per permettere una permeabilità fortissima tra case e parco. Il progetto si trova in ex aree a standard edilizio, messe a disposizione, in diritto di superficie dal Comune. C’era anche una idea forte di promozione di servizi, pensandoli a tre scale: per gli abitanti, per il quartiere e per la città. Nel 2011, dopo 6 anni, gli alloggi sono stati assegnati ma, di fatto, è mancato un gestore. Per questo non tutto si è attivato. In sostanza, spiega Lorenzo, veniva chiesto ai progettisti di inventarsi dei servizi e loro lo hanno fatto (con la casa dell’acqua, il bar, il tetto della torre accessibile) ma dopo la progettazione era necessario che qualcuno si prendesse in carico la gestione e inventasse palinsesti di coinvolgimento degli abitanti. Gli alloggi sono 118 e gli abitanti dovrebbero essere circa 400. Alcuni tagli sono dei tagli molto piccoli perché le case Aler e le case comunali hanno degli standard a persona estremamente bassi il che ha comportato nella torre una sorta di invenzione tipologica. E’ stata divisa in due corpi da 8 m di lato in modo da permettere a tutti gli alloggi il doppio affaccio. nella torre era previsto un terrazzo collettivo ma a quanto pare, ci dice un abitante, esperto di arti marziali che incuriosito si avvicina, nessuno ha le chiavi.

Chiediamo a lui com’è vivere in quelle case, ci spiega che lui non ci vive male ma non capisce perchè i servizi non esistano. Ad esempio, lui si coltiva un giardino/orto davanti a casa, abitando al piano terra è più facile, e per fortuna glielo lasciano fare, ma potrebbe essere una pratica collettiva, una scusa per coinvolgere abitanti e quartiere. Ma niente, si sentono totalmente abbandonati. Essendo lui un insegnante di arti marziali, gli suggeriamo che sarebbe bello fare dei corsi sul terrazzo collettivo. Ci risponde di non avere speranze, ma se vogliamo ci fa una dimostrazione con i bastoni. Filippo lo fotografa. lo salutiamo e andiamo a pranzo.

Troviamo una vecchia cascina a gestione familiare a pochi metri dall’accesso alla tangenziale. Un mondo antico, marito e moglie, molto anziani, con fare burbero ma divertente, ci fanno accomodare. C’è quel che c’è non vi lamentate. Mangiamo benissimo, come fossimo a pranzo dalla nonna. Però siamo in ritardo con l’appuntamento successivo. Arriviamo a Villa Pallavicini con visibile ritardo, ne siamo davvero dispiaciuti. Non è sempre facile mantenere il ritmo degli incontri soprattutto quando si infilano dei racconti inaspettati che ci dispiacerebbe perdere, nella nostra corsa alla scoperta delle realtà. Così chiediamo venia a Manuela che ci accoglie nel suo unico giorno libero e, grati per il suo sacrificio, le promettiamo di portarle via poco tempo.Ci fa accomodare nel giardino, vicino alla Martesana. Ci raggiunge anche Massimo il fondatore dell’Orchestra di Via Padova che segue con noi il racconto della storia di Villa Pallavicini.

20 anni fa la villa era un rudere quando ci sono entrate, così l’hanno sistemata con una sola regola, non imporre al quartiere delle attività ma chiedere al quartiere cosa serviva fare in quello spazio, a disposizione per loro. Il primo giorno di  inaugurazione c'era veramente tantissima gente, hanno distribuito dei foglietti con tutti i disegnini, ginnastica corsi di danza, riicette e molto altro e loro mettevano la crocetta sull’attvità che avrebbero voluto. Così sono partiti. Corsi, concerti, cerimonie, feste, un po’ di tutto. E mano mano che la zona è cambiata, sono arrivati tantissimi stranieri che avevano bisogno di imparare l'italiano, Pallavicini si è adattata. hanno aperto una scuola italiana per stranieri e con un volantino, veramente uno, hanno avuto subito un assalto. così ora hanno circa 600 arrivi all'anno. Fortunatamente, dice Manuela, hanno avuto un molti volontari, circa quarante nella scuola. L'approccio è rimasto sempre quello: "Cosa volete fare?”così sulla base di nuove esigenze si costruisce. Per le donne hanno un servizio di baby sitting dedicato, perché mentre le mamme frequentano la scuola di italiano i bambini stanno con delle volontarie che li guardano. Il giovedì pomeriggio hanno la casa delle donne di via Padova che è uno spazio in cui cucinano, cuciono, fanno gite, e alcune donne imparano a prendere la patente! C'è un vigile in pensione che le prepara per l'esame di teoria, ma anche imparano ad andare in bicicletta. Con Ciclopi” fanno dei corsi di bicicletta che partono in primavera. All'inizio arrivavano tantissimi uomini soli per cui serviva solo un insegnamento puro della lingua e magari un supporto per il disbrigo di pratiche per permessi, poi sono ricominciate le pratiche per i ricongiungimenti, e arrivate le mogli e poi sono arrivati i bambini. Un mutare continuo della richiesta che modifica continuamente l’offerta. Prevalentemente interagiscono con nordafricani, mussulmani, abbiamo 32 nazionalità in tutto, però la prevalenza di persone viene da Marocco, Egitto, Siria, Libia, Algeria. Sono davvero oberate di lavoro e il nuovo fronte che si dovrebbe aprire in questo momento è il supporto ai minori, ai bambini, ai piccoli scolari perché ad esempio recentemente hanno avuto una mamma che ha portato da loro il figlio con un bigliettino, dove la scuola scriveva che doveva mandarlo in un centro per bimbi con problemi di apprendimento. Invece si trattava solo di passare del tempo con lui. Farlo imparare. Pallavicini è un realtà che negli anni è cresciuta tantissimo, pur non facendo pubblicità alle iniziative o facendone poca. Perchè, ci dice Manuela, la rete informale tra realtà esiste ed è molto solida! E chi ha bisogno di un servizio sa benissimo dove può trovarlo. Spesso è più difficile dialogare con le amministrazioni, con i Servizi Sociali. Hanno segnalato casi gravissimi che in tre anni non sono mai stati risolti. Nemmeno un intervento. Il sistema è vecchio e i bisogni sono nuovi, così tutto si incarta.

Le chiediamo come si finanziano. Partecipando a tutto, ci risponde, cercando risorse dovunque, per rispenderle sul territorio quindi Fondazione Cariplo, chiesa Valdese, Regione, Provincia, Ministero, perché non hanno la tranquillità di poter lavorare dentro un sistema di welfare milanese, certo, ogni tanto arriva anche qualcosa dal Comune però estemporaneamente, senza continuità. Parliamo di come sia cambiata Via Padova, molto ovviamente. Le Comunità straniere sono una risorsa pazzesca. Ad esempio il fruttivendolo all’angolo rimane aperto fino a quando non passa l’ultima 56. Se non è presidio sociale quello! Poi dicono che Via Padova è solo un brutto posto. Certo, le criticità ci sono, ma ci sono anche grandi spazi di solidarietà tra abitanti. Lasciamo Manuela andare a passare le sue, ormai, poche ore libere.

Facciamo sedere Massimo il fondatore dell’Orchestra di Via Padova. E’ arrivato a vivere in Via Padova nel 2004, la zona la conosceva perchè il suo maestro di musica abita tuttora lì vicino, quindi è stato un po' un ritorno ciclico. Ci racconta che prima, negli anni ‘80, c'era una grande concentrazione di immigrati dal Sud mentre adesso, dagli anni ‘90 in poi, si è trasformata fino a diventare quella che conosciamo come la via più multietnica della città anche se è un aggettivo che a lui nonpiace molto. Perché poi quello che dovrebbe interessare sono le culture che la abitano questa via e le culture si portano dietro tanti di quei messaggi, codici, che soltanto frequentandosi riusciamo a riconoscere e, in qualche modo, anche accettare. E’ dura un po 'per tutti, anche per loro, accettare certe nostre modalità culturali. Così l'orchestra è nata da questa idea di mettere insieme un alcuni linguaggi e culture musicali in un progetto che fosse, musicale, artistico, ma anche sociale.

Con L’Orchestra, dice c’era un confronto non soltanto sui linguaggi musicali ma anche sulla quotidianità, sulle cose pratiche. Gli è capitato, banalmente, di non riuscire a fare delle fotografie all'uscita del primo cd perché il percussionista cubano stava facendo un percorso spirituale e non poteva essere fotografato. E a parte i vari Ramadan le varie feste ortodosse, c’è un confronto molto interessante anche sul piano sacro, religioso, che in fondo è anche alla base di una certa idea di musica. Una volta anche in Italia la musica era una cosa sacra, la musica ha sempre officiato in qualche modo a dei riti sociali, dal Sud Italia, in tutte le realtà rurali, da dove vengono i musicisti dell'orchestra di via Padova. E’ questa l’ idea che sottende la loro musica. Nel 2006 si sono formati, nel 2008 hanno fatto il primo cd “Tunjà", l’hanno autoprodotto e poi nel 2011 è uscito "Stanotte", il secondo cd e poi l'ultimo l'anno scorso "Acqua" . Ora la formazione è di 17 membri e non è stato sempre facile, soprattutto nell’era Moratti, con la Bossi Fini attiva. Poi c’è stato l’omicidio di Aziz. E’ triste, ci dice, che non ci sia nemmeno una lapide in sua memoria. Un tempo provavano insieme ad altri nello spazio dietro all’Anpi, in uno spazio in parte comunale poi ceduto ad un privato, così sono dovuti andare via. Il Consiglio di Zona allora gli ha dato uno spazio dove hanno provato fino a tre anni fa, all’Anfiteatro della Martesana, ma in inverno era davvero freddo. E poi con gli strumenti non è facile! Ora hanno trovato un accordo con il preside del C.b.a. le scuole di italiano per stranieri in via Pontano, dietro Parco Trotter e hanno sistemato un'aula teatro che anticamente era utilizzata dal maestro Bianchi il fondatore delle scuole di musicoterapia a Milano. La loro missione è quella di riuscire ad avere un punto di vista che comprende tutti e musicalmente è l'obiettivo dell'orchestra di via Padova anche da un punto di vista artistico, e in qualche modo sta diventando importante raccontare delle storie che li appartengono e che sono comuni a molte storie vissute da persone che vivono lontano dai proprio affetti. Tatiana, ad esempio, faceva parte dell’orchestra e aveva il figlio in Ucraina, ogni sera lo chiamava e gli cantava la buonanotte al telefono. Così è nata la ninna nanna al telefono.

E’ bella la chiacchiera con Massimo, ci restituisce una dimensione completa del fare cultura, coinvolgendo il mondo, ovunque il mondo si trovi. Riprendiamo il Canale della Martesana, lo percorriamo fino al teatro, dove gruppi di famiglie, di diversa nazionalità si tritrovano per danzare, mangiare, preparare delle gare. Assistiamo ad un allenamento, un ragazzo mentre salta si fa male, serve chiamare l’ambulanza. Tutti gli si fanno stretti intorno, preoccupati perchè forse, alla gara, il giorno dopo, non potrà partecipare più.Il suo allenatore nell’attesa si stacca, si avvicina a noi, accendiamo la telecamere e ci racconta che la sua associazione si chiama Associazione culturale boliviani in Italia ACBI.

Loro sono i “Pasion latina”, vengono dalla Bolivia e lavorano sodo per imparare delle danze antiche condite con un po’ di modernità. All’inizio erano in pochi ora arriva gente da Rho, Abbiategrasso, Cormano e Cologno. Anche qualche italiano si associa e anche qualche ragazza rumena. All’inizio provavano nella parrocchia grazie al Don Piero, poi il prete è cambiato, così in inverno affittano alcuni spazi per provare e in estate vanno in martesana. E’ un modo per stare in famiglia, i più anziani cucinano e i più giovani insegnano ai figli a ballare, costruiscono delle coreografie e poi provano per fare delle gare tra loro.

I tipi di danza? Dal Caporales, Morenada, Diablada, alla Chacarera. Gli spettacoli li portano ovunque da Cernusco alla Francia, gli chiediamo se possiamo iscriverci anche noi, ci aspettano con piacere. Arriva l'ambulanza, ci lascia per controllare che il suo ragazzo venga curato al meglio. Nel frattempo Filippo viene rapito da una squadra avversaria in costume che gli chiede di riprendere anche loro. In fondo è un modo per riprendersi uno spazio in maniera libera, attivarlo, farlo brillare di eventi spontanei. A Milano è solo l’inizio, in altre città queste comunità sono molto più ampie. Noi li osserveremo attraverso uno dei nostri progetti, imparando da loro che la danza può essere un motore sociale importantissimo.