Federica Verona: intervista su Zero

Ogni tanto veniamo in contatto con delle persone che sono al centro di tutto e di tutti, e non ce ne eravamo resi conto subito. Una di questi è Federica Verona, nata furlana, passata dallo IUAV di Venezia e poi, una volta naturalizzata milanese, fulcro di una rete impressionante: architetti, artisti, fotografi, giornalisti, politici, persone che fanno le cose più disparate. Soprattutto amici. E poi ci sono i suoi amici anonimi, quelli che lei fotografa con il cellulare per strada ossessivamente, e pubblica su Instagram. Dopo avere scartato la professione di architetto, Federica Verona ha scelto di occuparsi di periferie e housing sociale. Da anni lavora con il Consorzio Cooperative Lavoratori e in particolare ha seguito fin dagli esordi il progetto delle case di via Zoia, il rapporto con i futuri abitanti di queste case e ha costruito il progetto ZOC, Zoia Officine Creative. La passione per questi luoghi e per le energie positive che li attraversano e li animano l’ha portata a mettere in piedi un nuovo progetto: SUPER, il festival lento delle periferie. Voila.

Zero: Parlaci di SUPER. Com’è nato e che cosa è esattamente? Federica Verona: Quando iniziai a lavorare a Zoia, un progetto di housing sociale, avevamo l’obbligo di inserire il 5% di servizi al quartiere. Tra i miei compiti c’era quello di incontrare le persone del quartiere, tutte le attività e le associazioni, e mi sono resa conto che c’era un mondo interessantissimo. Aprimmo un blog all’inizio dei lavori dove raccontavamo l’avanzamento del cantiere e il contesto nel quale questo si stava inserendo a livello di quartiere. Il lavoro era spinto dalla curiosità per le azioni, per le persone che vivevano in quel contesto. Più tardi, direi un paio di anni fa, mentre raccontavo a Gianmaria Sforza(designer, ora tra i soci fondatori di Super) il potenziale forte che un luogo di periferia come quello di Zoia potesse avere, ci siamo interrogati su cosa potessimo fare per raccontarlo ed estenderlo ad altri quartieri, e lui ha detto “un festival” (poi ha anche avuto lui l’idea per il nome). Ho subito cominciato a scrivere un progetto e a raccogliere persone molto diverse tra di loro per provenienza e competenze, perché non volevo partire da un gruppo già formato, compatto.

Filippo Romano, fotografo, ha una sensibilità molto aperta al tema sociale, non è concentrato solo sull’immagine, ma anche sulla storia. Ha il metodo dell’analisi lenta. Poi Mirko Spino, che ha fondato l’etichetta indipendente Wallace Records per pura passione, nel tempo libero. Nicla Dattomo, urbanista, che ci offre uno sguardo più da studioso. Chiara Lainati, antropologa, che lavora presso Sole Terre Onlus, si occupa di immigrazione e per questo conosce bene le periferie come luoghi che hanno un potenziale: lei segue anche la parte amministrativa. Il gruppo pian piano si è esteso e oggi siamo in 14 a lavorare al progetto, siamo un’associazione e ci chiamiamo Tumb Tumb.

All’inizio doveva essere un festival di una settimana, un’occasione per cercare e fare emergere dei luoghi speciali legati alla produzione di cultura, laboratori, coworking, associazioni, studi, e metterli a confronto con una serie di spazi esteri equivalenti. Poi è diventato un sistema più articolato, un festival lento: volevamo darci del tempo per esplorare questi luoghi che non conosciamo ancora benissimo, e quindi dall’autunno abbiamo organizzato una serie di tour, due volte al mese, che termineranno verso l’estate. Incontreremo quelle realtà giovani, ma non solo, che di cose ne fanno tante. Nel primo tour abbiamo visitato l’Associazione Terzo Paesaggio che ha fatto L’Anguriera di Chiaravalle, e ci hanno raccontato della rete che stanno costruendo per ridare un ruolo a un territorio che di fatto è stato abbandonato, coinvolgendo contadini, produttori, cercando di chiamare nuovi contadini e nuove pratiche. Poi siamo passati al Talent Garden, il più grande coworking d’Europa, che si trova vicino alla Fondazione Prada, in una zona che era di botteghe. Poi alla Tipografia Reali, dove Marco Nicotra, un graphic designer, ha aiutato il proprietario della tipografia, che fa il suo lavoro come negli anni Cinquanta, ad andare incontro alle esigenze dei clienti in modo nuovo: ora c’è un coworking, un luogo dove giovani graphic designer affiancano il tipografo per capire il funzionamento della stampa dal vero, dell’analogico, e magari per cambiare la destinazione di un mestiere che in qualche anno sarebbe forse sparito. Poi Serpica Naro, e altri accomunati dalla voglia di creare ..

Quindi non sono necessariamente legate allo sviluppo del territorio, alcune semplicemente stanno in quei luoghi? Si assolutamente. E però magari portano altre persone in quegli stessi luoghi.

Lo scopo primario dei tour è l’esplorazione da parte dei membri del gruppo organizzatore, ma l’iscrizione è aperta anche agli esterni, giusto? Esatto. Ci piacerebbe molto che anche le persone che incontriamo negli spazi si appassionassero e venissero a conoscere le altre nei tour successivi, e in quache caso è già avvenuto. Un momento fondamentale è il pranzo. La prima volta la trattoria era buonissima, Al Casottel.

E alla fine dei tour cosa succederà? Faremo un libro a settembre, finanziato tramite crowdfounding, poi partiranno dei progetti curati dai fondatori dell’associazione ma anche da altri. Per esempio Michele Aquila organizzerà un tour delle periferie in bicicletta di notte di 100km. Elisa Sabatinelli metterà in piedi un festival con giovani autori che leggono nei cortili, secondo un format che ha sperimentato a Fano. Filippo Romano sta progettando un tutorial con cui insegnerà agli abitanti a usare la macchina fotografica, per ottenere delle immagini prese con uno sguardo interno ai luoghi. Claudia D’Alonzo e Bertram Niessen stanno mettendo a punto dei device per attraversare spazi e territori. Il progetto Fuori Luogo si occuperà di indagare i teatri come luogo di aggregazione, e Silvia Bovio e Francesco Grandi costruiranno un diario dei luoghi di sperimentazione. Io vorrei fare un progetto sulla linea 90-91 coinvolgendo alcuni artisti.

Come sarà il festival finale nel 2017? Sarà la sintesi di tutto: gli spazi coinvolti si racconteranno, i progetti diventeranno degli incontri, delle passeggiate, degli spettacoli, delle mostre, per esempio tra gli altri progetti il mio sogno sarebbe fare diventare la 90-91 una mostra itinerante. E poi è fondamentale invitare tutti quegli spazi culturali esteri che lavorano in modo intelligente con le periferie. A quel punto avremo raccolto un archivio on line di pratiche e progetti. Lo sguardo che vuole avere SUPER consiste nell’evitare quello che è già noto, già conosciuto: la mancanza di sicurezza, i problemi, la mancanza di manutenzione. E invece parlare di quei soggetti che spesso lavorano lontano dal clamore, che hanno spesso a che fare con la cultura, che siano associazioni, singoli, gruppi di teatro. La cultura è un ottimo ingrediente se si parla di sociale, perché è un modo di rigenereare, responsabilizzare, rilanciare, di creare nuove opportunità.

E visto che ti sei molto occupata di abitare, housing, ci sarà qualcosa del genere nei tour? Sicuro, Alcuni progetti partiranno proprio dall’housing. Penso a Cortili letterari di Elisa ma anche al lavoro di Gianmaria legato all’arredo urbano.

E neppure solo imprese culturali però? No, chiunque si occupi anche di sport, o i gruppi di skaters, oppure, come al Gratosoglio, un’associazione di abitanti che fanno cose per migliorare il quartiere, che si rappropriano degli spazi. Magari alcune sono più inclusive di altre: lo spazio fotografico LINKE a Stadera non ha alcun rapporto con gli abitanti, ma sta lì. Stiamo imparando in modo molto umile, io sono colpita dalle storie che abbiamo incrociato, il festival ha il fine di fare emergere, di promuovere nuovi modi di progettare e intendere.

Che studi hai fatto? Mi sono laureata con Bernardo Secchi allo IUAV di Venezia con una tesi-proclama sugli homeless, un lavoro su come abitano gli homeless a Milano e sulla normalizzazione dell’accoglienza. Durante la tesi mi ero trasferita già a Milano. Poi lavorato con Multiplicity, partecipando alla ricerca di Milano. Cronache dell’abitare. Poi al Politecnico ho partecipato a un progetto su 11 centri accoglienza notturna, finanziato da Cariplo, per creare un’alternativa all’idea di dormitorio e per aprire i dormitori alle attività diurne, renderli accessibili al quartiere. Ho collaborato anche a Post-it city di Giovanni La Varra – feci un’indagine con Cecilia Pirovano sulle persone che abitavano le macchine di notte.

 

Un’immagine da “Post-it City. Ciudades Occasionales”, 2011-12 Ma nel frattempo avevo bisogno di un lavoro vero e ho mandato un cv a Alesssandro Maggioni, presidente del Consorzio Cooperative Lavoratori, un consorzio di cooperative di abitanti, nel 2008. E iniziai a seguire Zoia da zero, dal bando a cui partecipò Solidarnosc insieme alla Cooperativa Ferruccio Dagradi. Dopo un po’ di anni sono diventata consigliere di gestione del consorzio. Dal CCL ho imparato moltissimo, e con Zoia abbiamo fatto innovazione con 90 alloggi di social housing dove abbiamo ottenuto grande qualità. Noi abbiamo poi creato ZOC, Zoia officine creative. Abbiamo lanciato un concorso aperto ad artigiani, artisti, lavoratori, e ora i ragazzi di ZOC pagano un affitto bassissimo ma il patto prevede che restituiscano al quartiere: il liutaio fa corso ai musicisti sulla costruzione di strumenti, le scenografe fanno attività con bambini. I bambini sono più coinvolti. Con Zoia era nato anche il blog che doveva documentare il cantiere per gli abitanti: volevamo fornire informazione costante sull’andamento dei cantieri, gli operai mi vedevano come una pazza. Ma poi cominciammo a raccontare anche il quartiere. Mi appassiono sempre molto alle storie: uso il video senza grandi competenze tecniche, ma per registrare storie.

Ma ti piace anche la fotografia, fai ritratti per strada a persone di cui non conosci le storie. Fotografo quelle persone di cui penso che non siano consapevoli della propria bellezza. Mi colpisce chi indossa un qualcosa di particolare, scarpe strane, un indizio. Da lì immagino storie pazzesche.

Perché eri venuta a Milano? Per amore. Quando è finito sono rimasta qua. Poi è arrivato Jacopo (Tondelli, ndr) l’ho incontrato 5 anni fa a un pranzo di lavoro.

Chi sono le persone a cui sei legatissima? Mah, mi rendo conto che conosco un’infinità di persone qua a Milano, ed è difficile classificare la cerchia più ristretta degli affetti. Chiara Sogos, la mia migliore amica di Pordenone che abitava con me a Venezia, la vedo sempre, quasi tutte le settimane.

E a mangiare dove vai? Andiamo da Clara a Il caminetto con Matteo Ghidoni. Mi piace mangiare nei posti vecchio stile, nelle trattorie. In primavera vado spesso da Buzzi a Cassignanica di Rodano, poi qua un classico è Pino in via Gluck. Per mangiare qualcosa di sano tutti i giorni, vicino a Missori dove lavoro, c’è Soupernatural, mentre vicino Zoia il punto di riferimento fondamentale sono i cinesi vicino alla Coop, Blu Ice. L’aperitivo da Pause.

Vai pure a ballare? Magari! Troppo poco. L’ultima volta all’Atomic. Però se posso vado ai concerti, l’underground al Conchetta o al Torchiera, ma sono andata anche ai Melvins al Leoncavallo.

Ti piacerebbe fare politica veramente sulle periferie? Mmmhh.. no. Per come è la politica oggi no. Diventerebbe un gran frullatore in cui il rischio grandissimo è di perdere il senso, e non sarebbe giusto.

beh poi qualunque atto, qualunque iniziativa o lavoro in periferia sono politici in sé naturalmente, e quindi anche il festival lo è: ma invece intervenire sulle periferie da politico non pensi sia utile… No, mi spaventerebbe molto, vorrei cercare di preservare in maniera assoluta l’obiettivo. Il sistema mediatico, l’ambizione, il sistema di relazioni oscura la vista. Preferirei fare dei progetti, insieme alle persone che fanno parte di Super. Un modo alternativo di fare politica.

Che ne pensi dei cambiamenti di Milano? Non si può dire che Milano non sia cambiata e la cosa mi piace un sacco. IL fatto che puoi non comprare una macchina perché c’è il car sharing, la pedonalizzazione intorno a Gae Aulenti – a prescindere dall’appprezzamento o meno dell’architettura, che è soggettivo – sono cose positive, danno un’aria europea.

E dei posti nuovi aperti? La Fondazione Prada è bellissima, vado a mangiarmi i panini al bar e grazie a dio che c’è, in una zona che prima stava lì nelle retrovie. Io poi sono una fan dell’Hangar Bicocca e mi mancherà tantissimo Andrea Lissoni con le sue mostre. Quel posto lontano che sembra di stare a Brooklyn. Expo Gate mi sembra bello e lo lascerei anche lì dov’è. La cosa che conta comunque non è il guscio, l’aspetto, ma quello che succede dentro. Tutti questi luoghi di cultura hanno portato un grande significato a Milano. Anche Piazza Gae Aulenti, o la Darsena, belle o brutte che siano, riescono ad attirare una enorme quantità di gente felice di usare questi spazi.

Ecco, ultimissima domanda: ma cosa pensi di questo horror vacui milanese (e non solo), questa tendenza a riempire ogni spazio con baracchini, tendoni, display, attività e strutture commerciali di ogni genere sempre e comunque? Penso che sia un po’ una mediazione culturale per attrarre fasce di persone che seguono bisogni compulsivi. Io non sono sempre e comunque contraria al fare cassa, ma lo si potrebbe fare in modo più intelligente. Non sono una grande fan delle bancarelle a ogni costo. Mi è piaciuto moltissimo invece l’intervento dietro alla Stazione Centrale, hanno rifatto la piazza e non ci va nessuno, ma gli homeless hanno uno spazio bello, civile in cui sostare.